venerdì 18 novembre 2016

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Io, Daniel Blake


La locandina del film
L’altro ieri sera il circolino del mercoledìcinema ha scelto l’ultimo film di Ken Loach: Io, Daniel Blake.

Il film era proiettato nella splendida sala cinquanta del cinema Anteo a Milano, tra l’altro. Devo dire che pur amando i multisala con i loro impianti audio roboanti e le poltrone giganti, questa piccola sala con i divanetti esercita un certo fascino su di me. Se vi capita, andateci a vedere qualcosa, qualsiasi cosa (al massimo dormirete comodi).
Sono entrato in sala senza aver visto il trailer del film (cosa per me piuttosto rara) ma solo con il racconto di alcune persone che l’avevano visto: mi aspettavo, in buona sostanza, un bel film di denuncia ma fondamentalmente con la caratteristica di essere tristissimo.

Com’è andata?

È andata che le aspettative distorcono la visione, esattamente come uno spoiler. Se però lo spoiler ti dà la certezza di perderti un finale a sorpresa, il colpo di scena che ribalta tutto quello che hai appena visto o di sapere quale dei personaggi principali è destinato a morire, le aspettative di una certa emozione – in questo caso aspettarsi di essere tristi – mi hanno fatto esclamare a fine film: sì, triste, eh. Ma niente di paragonabile a [inserire film veramente triste come Alabama Monroe e simili].

Vabbè, seghe mentali a parte, com’è il film?

Bello come i film neorealisti sapevano essere.

Ken Loach segue le disavventure kafkiane di Daniel Blake, carpentiere costretto a stare a casa dopo un infarto. L’epopea del lavoratore si snoda nei meandri della burocrazia inglese e arriva a raccontare scorci di povertà e dignità che potremmo tranquillamente trovare dietro l’angolo di casa.

Il film non ha una colonna sonora né particolari finezze cinematografiche: per tutta la durata del film ci limitiamo a seguire Blake e a vedere come i diritti negatigli scavano il suo volto e distruggono la sua vita.

Il regista ancora una volta si propone come il cantore degli ultimi, prendendo una storia di quotidiano dolore (tragica, eh, ma normalissima) e facendola diventare – attraverso il linguaggio cinematografico – una denuncia della burocrazia, del “sistema “ e di tutti quegli ingranaggi che schiacciano l’umanità e l’empatia.

Il film non offre alcun appiglio alla speranza, nemmeno quando – per un fugace istante – ci concede di immaginare un futuro fatto di persone schiacciate dal sistema che si uniscono sotto il nome di Daniel Blake: tutto rimane, appunto, solo nell’immaginazione dello 
spettatore, mentre il regista lascia scivolare via quell’istante senza tornarci sopra.

Io a questo punto ho sperato nella rivoluzione
Vale la pena di vederlo? Se vi piace Ken Loach, se volete ricordarvi ancora una volta quanto è sottile il confine tra benessere e disagio (non solo economico) e se volete vedere un film che vi faccia riflettere su quanto vi circonda, allora sì.

Altrimenti trovate un’altra scusa per sedervi sui divanetti della sala cinquanta.

giovedì 13 ottobre 2016

Ho partecipato al DyDay e ho visto una speranza per l’umanità

Lunedì 26 settembre 2016 ricorreva il trentesimo compleanno di Dylan Dog. Dopo anni di esaltante novità e fenomeno culturale – l’era Sclavi – quasi altrettanti di delusioni e trascinamento in storie senza più mordente, finalmente i fan (tra cui il sottoscritto), hanno avuto pane per i loro denti.

Lo hanno avuto in termini di rinnovamento delle storie, dei temi e delle atmosfere (anche se, in realtà, non ci si ritrova tra le mani un Dylan Dog 2.0 ma un fumetto che vede il ritorno alle origini, come ama sempre ripetere l’attuale curatore, Roberto Recchioni) e in termini di iniziative, editoriali e non.

Lunedì, ad esempio, nel pieno centro di Milano, c’è stato un fiorire di zombi, cosplayer, sceneggiatori e disegnatori: un’atmosfera da Dylan Dog Horror fest in embrione (questa è una speranza personale!) che era una gioia per gli occhi.

Prima è doveroso un passo indietro, però.

Leggo Dylan Dog da quando avevo dodici anni: un amico estivo (tale Pierpaolo di Torino, che mai più sono riuscito a ritrovare) mi face conoscere questo fumetto, ai tempi nel pieno del boom editoriale - era il 1993, e fu subito amore: per lo splatter, le storie con il finale aperto, le bellissime donne, i comprimari e lui, il fragile ma determinato Dylan.
Secondo me pure la mia passione per le polacchine marroni è cominciata là, ma non divaghiamo.
Poiché ero troppo piccolo e vivevo troppo lontano da Milano, non ho mai partecipato a un Dylan Dog Horror Fest e guardavo a questo evento come un traguardo di quelli da ricordare, una volta che fossi arrivato ad avere l’età giusta. La dura realtà è stata diversa: hanno chiuso l’Horror fest e io ho semplicemente continuato a leggere Dylan Dog.

Tutto questo fino a lunedì, quando finalmente mi sono ritrovato tutto emozionato all’uscita della metropolitana Duomo, nel pieno centro di Milano.

La gioia di avere nello zaino un paio di copie da farmi autografare si è scontrata subito con la fila mostruosa che partiva dal cinema dove ci sarebbe stato l’evento e arrivava fino alla fermata della metropolitana, svariate decine di metri più in giù. Già sentivo la musica triste in sottofondo e le bestemmie a fare da contorno (in realtà ero estremamente contento della coda perché voleva dire che ancora ci sono tante persone che leggono, che leggono fumetti, che escono di casa per partecipare a questi eventi. C’è una speranza anche per i nerd, in fondo).

Fortuna ha voluto che i posti riservati non siano stati tutti occupati (si vede che qualche giornalista ha preferito un qualsiasi evento della settimana della moda… povero lui!) e quindi sono stato buttato dentro tra gli ultimi dieci. Giuro, è andata proprio così.
Mi faccio largo tra i cosplayer di zombi, prendo il biglietto stampato per l’occasione (qua sotto una foto esemplificativa) e arrivo in sala.

Il mio biglietto, ancora intonso.

C’erano tutti, ma tutti tutti: Angelo Stano, Paola Barbato, Nicola Mari, Gigi Cavenago, Riccardo Torti, Michele Monteleone, chi più ne ha più ne metta e ovviamente Roberto Recchioni, che capeggiava a due metri da terra per la gioia. Tutti erano circondati da una folla di fan adoranti che porgevano loro il cartoncino del trentennale per un autografo o un disegno.

Io, che sono furbo, ho preso un posto in sala dicendomi: mi faccio firmare con calma la mia copia alla fine dello spettacolo.

La serata è stata uno di quegli eventi che i fan adorano, non c’è niente da dire. Due parole del direttore editoriale e del curatore, quindi piccola pillola dello sceneggiato radiofonico su Dylan Dog che andrà in onda su radio24, documentario sul nostro caro indagatore dell’incubo e proiezione – in formato originale – de La notte dei morti viventi.
Cosa chiedere di più? Tutti i fan (milanesi e non) chiusi in un cinema, a respirare la stessa aria che sapeva leggermente di sudaticcio e ad adorare il personaggio che seguono da svariate decadi. C’era pure quel tocco di esclusività dettato dalle anteprime dello sceneggiato e del documentario che ti fanno ricordare l’evento come un qualcosa di dedicato proprio a te.

Tra l’altro ancora non mi sono tolto il dubbio sulla pronuncia di Groucho perché l’ho sentito sia nella versione Graucio che in quella Grucio – rispettivamente nel documentario e nello sceneggiato. Ma vabbè, queste sono questioni trascurabili.

Alla fine insomma, ero emozionato come una quindicenne al suo primo concerto.

Luci in sala, tutti si alzano e io vado verso l’ingresso con il mio biglietto, ancora intonso, pronto per gli autografi.
La dura realtà si è manifestata con una giacca e un auricolare, indicandomi il lato opposto come l’unica uscita possibile. A nulla sono valse le mie preghiere: ho raccolto quel poco di dignità che mi era rimasta e sono tornato a casa.

Ho incorniciato il biglietto immacolato e mi consolo dicendomi che così non ce l’avrà sicuramente nessuno dei partecipanti… oppure che al primo Dylan Dog Horror Fest della nuova stagione avrò un cimelio da farmi autografare.


sabato 19 marzo 2016

Mercoledì cinema, giovedì recensione (in ritardo). Ave, Cesare!

Una locandina che è già un programma.

L'espressione la magia del cinema è uno dei grandi inganni della storia dell'intrattenimento.
È un inganno perché il cinema non è magia: dietro ogni produzione ci sono operatori, elettricisti, scenografi, costumisti, truccatori e ogni genere di tecnici che permettono al regista di confezionare un prodotto (buono o cattivo che sia).
Contemporaneamente, non è un inganno perché quando lo spettatore entra in sala non si rende conto del fondale dipinto a mano che fa da sfondo alla scena dell'inseguimento a cavallo. Lo spettatore vede il Grand Canyon in tutta la sua magnificenza.

Sul binomio inganno/realtà lavorano, ancora una volta, i fratelli Coen, ambientando il loro film agli albori della storia della macchina meravigliosa di Holywood, quando ancora i divi non avevano i cellulari da farsi leakare.

L'umorismo surreale, marchio di fabbrica di alcuni dei più bei film del duo di fratelli del Minnesota, è riproposto in Ave, Cesare! in tutto il suo splendore. L'aspetto che io trovo più interessante di questo genere di umorismo è che ci sono scene in cui ti ritrovi a ridere da solo o momenti in cui senti qualcuno ridacchiare senza sapere assolutamente il perché. 

Il cast è ai massimi livelli, dai protagonisti fino ai camei di pochi minuti: George Clooney con l'acconciatura di una statua romana, Josh Brolin l'imbolsito sognatore, Ralph Fiennes regista maniacale, Tilda Swinton, Jonah Hill, Scarlett Johansson, Frances McDormand, Dolph Lundgren, Christopher Lambert (uscito direttamente dal congelatore, probabilmente), Channing Tatum e chi più ne ha più ne metta. 
Tra l'altro Tatum deve avere un agente della madonna. Vabbè che è bravo ma da qua a vederlo in quasi tutte le grandi produzioni in uscita ne passa, eh. 

Il film, con la scusa di essere ambientato nei grandi studios hollywoodiani, fa delle escursioni regolari in quasi tutti i generi cinematografici: c'è la chicca noir con sigaretta, pioggia e voce roca fuori campo, il western con l'attore che non sa fare altro che stare a cavallo, il giallo, il musical - una delle scene più divertenti del film - la commedia, perfino il dramma familiare. 
Forse il senso del film è proprio questo: un omaggio a tutto tondo al mondo del cinema, dal tecnico più anonimo fino al divo più capriccioso, passando per i giornalisti e i fixer degli studios.
Inoltre, vedere con quanta maestria i fratelli Coen riescono a maneggiare tutto questo materiale, in termini di generi e di attori, è una gioia per gli occhi.

Alcune scene che vorrei rivedere subito (nessuno spoiler, tranquilli):
  • Gli sceneggiatori comunisti e il loro attacco al potere capitalistico delle case di produzione
  • Il balletto dei marinai gay
  • Il confronto tra il pastore protestante, il rabbino, il prete cattolico e il pope ortodosso sulla figura di Cristo in un film
Come fai a dare un voto basso a un lavoro del genere? 8 e 1/2, meritatissimo.

martedì 15 marzo 2016

Daniel Keyes: Una stanza piena di gente

La copertina del libro. Farla più brutta avrebbe richiesto troppo sforzo.

Quando mio fratello mi ha raccontato per la prima volta la storia di Billy Milligan, sono rimasto a bocca aperta. Letteralmente.

Questo ragazzo, nato negli anni ’50, è stato il primo caso, in America, di assoluzione per crimini gravi (stupro, nel suo caso) perché l’imputato era affetto da disturbo dissociativo dell'identità (a.k.a. personalità multipla). 
E fin qui non ci sono grossi motivi per stupirsi.

Quando però ho scoperto che dentro la testa del caro Billy convivevano non una, non due, non cinque ma ben ventiquattro personalità diverse, la mia mascella è cascata di brutto.

Il libro, scritto da Daniel Keyes, racconta la vita di Milligan: l’infanzia tormentata (veniva regolarmente violentato e torturato dal patrigno), l’adolescenza difficile, i vuoti di tempo – le diverse personalità non sapevano cosa accadesse quando non erano coscienti –, le difficoltà relazionali e dell’apprendimento, l’età adulta vissuta di espedienti e piccoli crimini. Poi l’arresto, i primi sospetti che una “semplice” infermità mentale non sarebbe stata sufficiente a spiegare gli atteggiamenti del ragazzo, la lotta degli avvocati per il riconoscimento della malattia e il ricovero in una delle prime strutture in America attrezzate a trattare quel genere di infermità.

Una vita come quella di Billy non deve essere stata facile e il dolore per la sua condizione emerge solo quando le terapie a cui viene sottoposto cominciano a dare i primi frutti. 
Ho scoperto che le terapie, in casi di dissociazione di personalità, non prevedono la negazione delle singole persone che convivono in una sola testa (sì, avete letto bene: si definiscono persone non personalità) ma anzi, mirano a fare in modo che tutte prendano coscienza delle altre, comincino a interagire tra di loro, si rendano conto delle similitudini caratteriali e – pian piano – si fondano l’una nell'altra.

Immaginate per un attimo la difficoltà di un terapeuta dinnanzi a un caso come questo e il precario equilibrio in cui una personalità deve ricomporsi, forzatamente, in età adulta.
È un po’ come se ogni aspetto di voi, la parte che si incazza facilmente, quella che piange davanti ai film d’amore, quella che vorrebbe mollare tutto e andare a vivere nei boschi, avesse una vita propria. 

Il libro è scritto in una maniera semplice e scorrevole, senza fronzoli né artifici letterari: parte come un thriller legale quando gli avvocati si rendono conto di cosa si muove nella testa di Billy e cercano di trovare il modo migliore per trattare il suo caso, passa per una biografia – quando scopriamo quali traumi ha dovuto subire una persona per arrivare a quel livello di dissociazione – e arriva alla cronaca degli ultimi anni in giro per le strutture sanitarie. 
La lettura in sé non è avvincente – non aspettatevi Stephen King – ma la storia compensa abbondantemente.

Se volete scoprire cosa c’era dentro Billy, quali erano i nomi e la caratteristiche di ogni persona e chi eraIl Maestro, correte a leggere Una stanza piena di gente
Capirete pure il perché di questo titolo.

Per concludere, gira in rete la voce che Di Caprio abbia comprato i diritti del libro per farne un film. 
La parte di Billy Milligan sì che meriterebbe un Oscar, altro che l’attacco dell’orso.

Voto: 7, perché la storia è da 8 ma la scrittura da 6.

giovedì 10 marzo 2016

Mercoledì cinema, giovedì vi racconto come ho conosciuto il personaggio. Deadpool

Un serissimo supereroe

Negli ultimi mesi si è parlato tantissimo di Deadpool: un personaggio nato per essere un cattivo che, nel giro di venti anni, è finito a fare l’idolo dei nerd.

Personalmente l’ho scoperto seguendo la saga Marvel Zombie, a un certo punto della quale è spuntato anche lui, il mercenario chiacchierone, sotto forma di una testa zombie che – appunto – non la smetteva mai di blaterare.

Inutile dirvi quanto mi sia piaciuto il suo umorismo, le vocine nel cervello sotto forma di balloon di colore e forma diversi, il suo bucare la quarta parete, la saga Deadpool uccide… vabbè, avete capito.

Aggiungo pure che, esattamente com’è stato per Il signore degli anelli, Le cronache del ghiaccio e del fuoco, la barba incolta ecc. sono stato spiazzato dall’essere circondato, di punto in bianco, da espertoni in materia, avidi collezionisti di cimeli e preparatissimi fan.
Questo ha provocato in me due reazioni: fastidio per il tran-tran collettivo e isterico (in questi casi vorrei girare con un cartello che reciti “Io lo sapevo da prima”)  ed esaltazione per tutto l’ambaradan che viene prodotto in queste occasioni (film? Sììììì! Ancora più fumetti? Sììììì! Gadget della minchia? Sììììì!)

Tornando seri, ieri sera sono stato finalmente al cinema a vedere Deadpool.

Mi è piaciuto? Sììììì!

Ecco i miei perché sì e perché no.

Sì:
I titoli di testa che prendono in giro tutta la macchina cinematografica di Hollywood e quelli di coda, esilaranti.
La scena della manina.
Le prese per il culo a ogni film della Marvel uscito finora.
La scena d’apertura, che in 30 secondi ti ha già fatto capire il tono del film.
Tutte le citazioni più o meno nascoste e in particolare quella di Ferris Bueller (di cui abbiamo già parlato qua).
Colosso il buonista.
Deadpool che prova a mazzolare Colosso, facendo la fine del T-rex.
Morena Baccarin.

No:
Se proprio vogliamo trovare un difetto al film, se proprio vogliamo fare gli schizzinosi… in effetti racconta una storia sempliciotta: la nascita di un supereroe a causa di un cattivo – piuttosto piatto – e la relativa vendetta. 
Ma, ehi, non sono proprio le storie semplici quelle più efficaci?

Voto: dovrei dargli appena un 7 ma il fan che è in me preme per un 8 e l’ardente speranza di un sequel.


giovedì 3 marzo 2016

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Lo chiamavano Jeeg Robot

La stupenda locandina del film 

Da grandi poteri derivano grandi responsabilità.
Questo assunto è stato (ed è, tutt'ora) alla base di tutta l'epica - e l'etica - dei supereroi (compreso quel capolavoro di Watchmen, anche se in maniera distorta).
Lo chiamavano Jeeg Robot non si sottrae a questa logica, anzi ci sguazza in pieno.

Se avete letto almeno un fumetto o visto un film a tema supereroistico sarete a conoscenza degli stilemi del genere: lo sfigato/emarginato che per un incidente acquisisce dei superpoteri, la consapevolezza della propria forza, l'uso personale delle abilità, la redenzione a causa di un avvenimento traumatico, il cattivo completamente folle che ti spiega il suo piano, ecc. 
Il film di Mainetti segue tutto l'iter, anche in senso lineare (a differenza di Deadpool, di cui parleremo a breve, che parte nel mezzo dell'azione e torna indietro con un paio di ottimi flashback).

E quindi dove sta la differenza rispetto a tutto il resto che abbiamo visto finora?

Personalmente l'ho trovata in due aspetti: l'ambientazione e la crudezza della realtà. 
Vi spiego.
Ambientazione: il film medio di supereroi è ambientato in America, lo sappiamo tutti. Gli alieni atterrano sulla Casa Bianca, i supercattivi si palesano in piena New York, il Baxter Building svetta nello skyline della grande mela e così via. Lo chiamavano Jeeg Robot è ambientato tra Tor Bella Monaca, un quartiere periferico di Roma e il centro città. Vedere le scene d'azione allo stadio Olimpico ha aggiunto un tocco di vicinanza e di aderenza alla realtà che ha fatto breccia nel mio cuoricione di nerd. È stato quasi come veder volteggiare l'Uomo Ragno dalle guglie del Duomo... una lacrimuccia sarebbe scesa a chiunque.

La scelta dell'ambientazione si porta dietro tutta una serie di ulteriori scelte, necessarie per la credibilità della storia. Tra cui, il secondo aspetto di cui vi accennavo prima: realtà vera.
Dimenticatevi i criminali patinati dei fumetti di supereroi, la pietà in Lo chiamavano Jeeg Robot non è ammessa. Nelle due ore scarse vediamo criminali di mezza tacca, corrieri che devono cagare gli ovuli, mafia, batterie pronte a rapinare i furgoni portavalori, case sgarrupate, sparatorie, esecuzioni, sporcizia e degrado, ossia tutto quello che leggiamo, sentiamo e vediamo ogni giorno nelle città italiane. Non ci viene risparmiato niente ma soprattutto lui, Hiroshi Shiba (alias di Claudio Santamaria) è figlio di questa realtà: è un disagiato che mangia solo yogurt, guarda solo porno e detesta la ggente perché nessuno ha mai fatto niente per lui. 
E ci credo che ti metti a rapinare bancomat appena scopri di avere una forza sovrumana.


Per chiudere, solito mini elenco dei perché sì e perché no.
Sì:
Le interpretazioni dei tre protagonisti: Claudio Santamaria più massiccio di come me lo ricordavo e perfettamente calato nella parte del supereroe-suo-malgrado, Luca Marinelli, eccezionale nella parte del cattivo crudele e a tratti folle (in alcuni momenti mi ha ricordato Joker) e Ilenia Pastorelli, una credibile ragazza fragile e dal passato tormentato (ho appena scoperto che arriva dal Grande Fratello... quindi qualcosa di buono ancora lo produciamo attraverso la tv?)

La passione per la musica italiana de Lo Zingaro e le cantate che si fa in macchina coi suoi sgherri.

La colonna sonora, in particolare la sigla di Jeeg Robot riarrangiata da Michele Braga e Gabriele Mainetti e cantata da Claudio Santamaria.

Pelle d'oca, eh?


No:
E niente, mi verranno in mente in un secondo momento.

Ultimo appunto: nel film c'è anche Salvatore Esposito, diventato famoso per la parte di Genny Savastano nella serie Gomorra. Peccato che pure qua gli facciano fare la parte del camorrista (per carità, bravissimo, eh!)... evitiamo l'effetto Tony Sperandeo, vi prego.

Che sennò mi girano i cugghiuni!

lunedì 29 febbraio 2016

Recensioni di recupero.

I mesi di assenza dal blog (dovuti ai motivi che trovate qui), non mi hanno impedito di leggere una serie di cose, guardarne altrettante e accumulare materiale da proporvi.

Per recuperare il tempo perduto e riprendere le consuete rubriche con la coscienza pulita, eccovi di seguito qualche mini recensione selezionata per l’occorrenza.


Scott Pilgrim: il fumetto, non il film (che recupererò a breve). Sei volumi in formato manga: una storia d’amore, chitarre e mazzate. Ma non mazzate tra bulletti del quartierino, tra gente coi superpoteri che salta sui tetti e trova un bonus quando uccide il boss di fine livello. Una stupenda commistione tra videogiochi e fumetto. Piacevole, con alcune idee veramente divertenti. Voto: 8 e 1/2


Guerrilla Radio: ci sono opere che intrattengono e opere che informano. Questo volume della piccola casa editrice Round Robin, disegnato da Stefano S3keno Piccoli, fa entrambe le cose: approfondisce l’impegno politico di Vittorio Vik Arrigoni (se non sai di chi sto parlando, fatti un giro qua e qua) senza mai diventare morboso. C’erano due grandi rischi, mettendosi a scrivere questa storia: scadere nella retorica e fare speculazioni sulla morte dell’attivista italiano. Stefano Piccoli si è destreggiato abilmente in questo campo minato (sì, l’espressione non è tra le più fortunate, in questo contesto), complici anche il lungo lavoro di ricerca, la sua passione e il confronto con la famiglia Arrigoni. Voto: 8


Hellnoir: la terza storia della nuova collana della Bonelli – le miniserie – unisce il noir con il soprannaturale (e fino a qua ci poteva arrivare anche un bambino di seconda elementare), trasformando l’inferno in una città sterminata, i demoni negli oligarchi più corrotti che possiate immaginare e creando un parallelo col mondo dei vivi lungo un’indagine per omicidio. L’idea mi era sembrata banale, inizialmente, ma ho dovuto ricredermi. Finora, per me è stata la miniserie più bella. Voto: 7 abbondante.


L’ombra della montagna: il sequel di Shantaram – libro che ho divorato e adorato – parte male e finisce peggio. L’autore riprende le storie dei personaggi qualche anno dopo la fine del primo libro ma non riesce né a creare una narrazione credibile né a dare spessore alle miserie umane che popolano l’India moderna. Se vi è piaciuto Shantaram, non leggete L’ombra della montagna, fatelo per il bel ricordo che avete delle avventure di Lin & company. Voto: 4


Amok: uno stranissimo libretto (si legge in due ore) che narra la storia di un medico inglese di stanza in Malesia alla fine dell’800. Amok è una parola malese che indica il furore omicida che pervade i folli. Nel mio caso, si è risolto tutto in un “meh, carino”. Voto: 6


The hateful eight: tutti l’hanno visto, tutti ne hanno parlato. È troppo lungo, è troppo diverso dal solito Tarantino, c’è poco sangue, c’è troppo splatter, non si capisce dove voleva andare a parare, ma a che serve il formato in 70 millimetri, eccetera. Io l’ho visto due volte, in versione normale per placare la scimmia e in 70mm da dare in pasto al fanatico e no, non mi sono annoiato né l’ho trovato troppo lungo. Vi piace Tarantino? Smettetela di fare paragoni con Django Unchained e godetevi la sua opera più teatrale. Che tra l’altro, pur essendo ambientata nel west ha una colonna sonora e alcune scene degne di un classico horror (Edit dell’ultim’ora: Morricone c'ha vinto l’Oscar con questo lavoro!). Voto: 9, che ve lo dico a fare.

Potrei parlarvi pure de Il ponte delle spie, di The Revenant e degli altri film che ho visto 
insieme al circolino del mercoledì però finirei per annoiare me stesso prima che voi.


Quindi accontentatevi delle recensioni di recupero, perché da oggi si riprende con la programmazione regolare.